Visione


Sono arrivato tardi alla fotografia. Fin quasi al termine degli studi accademici non solo non possedevo una macchina fotografica, ma neppure mi curavo degli scatti altrui. La foto ricordo, poi, non m’interessava, oppure, se mi riguardava da vicino, mi metteva a disagio, rammentandomi dolorosamente il passare del tempo. Ma ecco che durante i bei giorni d’un aprile fiorentino, annoiato e disilluso, cominciai a pensare che avrei potuto trovare nella fotografia quel rapporto pieno e diretto con le cose che mi sfuggiva, e che mi sfugge tutt’ora. Non che fossi così ingenuo e sprovveduto da illudermi che la fotografia riproducesse fedelmente la “realtà”. Piuttosto mi sembrava che la fotografia mi permettesse di concentrarmi sul mondo, d’osservarlo con sguardo attento, tanto da potermi beare della luce, delle forme e dei colori grazie al rilievo dato loro con lo scatto. In questi anni ho avuto la conferma di quanto la fotografia sia tutto tranne una riproduzione fedele della “realtà”. Anche sforzandosi di “registrare” la luce e i colori così come li vediamo, il punto di vista, il ritaglio della visione, il concentrarsi su un soggetto piuttosto che su un altro, la profondità di campo, la prospettiva dovuta alla scelta della lente, ecc. rendono lo scatto come un alcunché d’altro e di mediato (dal soggetto che fotografa e dallo strumento che registra) rispetto alla “realtà”.

Fotografando mi sono reso conto che spontaneamente vado a cercare l’ordine. Per me ogni singola foto è uno spazio delimitato che ha da essere riempito in maniera regolare, si tratti d’un ritratto o d’uno scorcio cittadino. L’armonia e l’equilibrio delle parti e dei piani sono quello che mi sforzo sempre di rappresentare. Potrei azzardarmi ad affermare d’avere un’idea classica della fotografia. Classica e affatto emotiva. Non sono interessato a “colpire”, a “emozionare” l’osservatore; né tanto meno a “scuoterlo” o “sconvolgerlo”. Cerco solo di trasmettere quel senso d’intima pace e soddisfazione che provo ogniqualvolta riesco a estrapolare o isolare l’armonia in ciò che mi sta davanti.


 
 

L’immagine mobile dell’eternità


In un celebre passo del Timeo, Platone scrive che il tempo è l’immagine mobile dell’eternità. Il Demiurgo, infatti, plasma la materia riottosa a somiglianza delle idee eterne, immutabili e perfetti archetipi di tutte le cose. Cosa c’entra con la fotografia? Nei paragrafi precedenti ho scritto realtà sempre tra virgolette. I miei studi filosofici mi hanno insegnato a soppesare le parole, soprattutto quando sono così insidiose come il termine realtà. La visione ingenua d’una fotografia che “registra fedelmente la realtà”, ha un presupposto filosofico fondamentale: che la realtà sia soltanto quella che può essere esperita coi sensi (o con quelle loro estensioni che sono gli strumenti scientifici). Ora, dichiaro candidamente che tale visione non è la mia. Sono intimamente persuaso che quanto cade sotto i sensi sia uno dei livelli della realtà, e che anzi dipenda da altro che ne permette l’esistenza e determina la configurazione. Questo altro è pura armonia, pienezza d’essere che, necessariamente, trascende la dimensione transeunte dei fenomeni, e quindi anche di ciò che può essere catturato con la macchina fotografica. Tuttavia sono convinto che tale superiore armonia si presenti, talvolta improvvisamente, alla vista di chi la cerchi, alla vista di chi sappia che esiste. La fotografia è quindi per me, come ho scritto sopra, la ricerca dell’ordine, che è come un cercare di catturare quelle manifestazioni dell’armonia superiore. In qualche modo aiuta, fermando la sempiterna mobilità del mondo, immagine instabile e inadeguata dell’eterno, a metterla sotto gli occhi di tutti – o perlomeno di coloro che ancora oggi, dopo più d’un secolo di culto del caos, ancora abbiano l’animo disposto a riconoscerne l’esistenza.







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